Lo stile di vita occidentale, disponibilità costante di cibo molto ricco di energia, livelli bassi o inesistenti di attività fisica e quantità e qualità del sonno che lasciano molto a desiderare, ci espone ad un elevato rischio per un folto drappello di patologie, tra le altre le malattie cardiovascolari e metaboliche, saldamente in testa tra le principali cause di morte. Intervenire su dieta ed esercizio fisico, in accordo con il nostro orologio biologico, può aiutarci a ridurre questo terribile rischio.
Il problema è che il nostro attuale stile di vita non è quello per cui ci siamo evoluti. Con un processo lento, durato centinaia di migliaia di anni, la selezione naturale ha premiato quei tratti che ci hanno reso più resistenti alla costante minaccia di carestie — la capacità di accumulare scorte energetiche interne con grande efficacia — e in grado di sopportare il duro lavoro della caccia e della raccolta, sfruttando le ore di luce e dedicando la notte al riposo e al recupero.
La nostra fisiologia è ancora in gran parte questa ma il paesaggio in cui ci muoviamo è completamente cambiato e una intera vita spesa nell’abbondanza e nella quasi completa inattività ci rende vulnerabili a tutte quelle patologie che hanno a loro radice in perturbazioni del metabolismo.
Un gran numero di studi ha mostrato che una attenta gestione della dieta, unita a un adeguato livello di attività fisica, è la miglior strategia per la prevenzione di queste malattie. Le modalità di intervento proposte sono molteplici e, purtroppo, raramente tengono conto del nostro orologio interno, del ritmo circadiano che governa il rilascio di ormoni in grado di influenzare la risposta del nostro organismo al consumo di cibo — o al digiuno — e all’attività fisica. Un ritmo complesso che a sua volta può essere modulato dalla distribuzione dei pasti e dell’esercizio nella giornata, in un continuo scambio di segnali e interazioni che hanno importanza rilevante per la nostra salute.
Dieta, digiuno e orologio biologico
L’assunzione di cibo, nell’uomo come negli altri animali, è regolata da un sofisticato meccanismo il cui scopo è di mantenere l’omeostasi, lo stato di stabilità ed equilibrio dell’ambiente interno al costante variare delle condizioni esterne. Tra i i fattori che partecipano a questo meccanismo, ci sono degli orologi interni che creano delle finestre in cui i pasti dovrebbero avvenire; finestre che sono in larga misura sovrapposte alla fase attiva della giornata. Alcuni degli orologi biologici più importanti si trovano nell’ipotalamo, una zona del cervello che controlla un gran numero di processi fisiologici, e per alcuni di questi l’attività è modulata dal naturale alternarsi di luce e oscurità.
L’attività di queste zone del cervello oltre che dalla luce è modulata anche dai livelli di alcuni ormoni, dalla disponibilità di nutrienti e da segnali che provengono dall’intestino, creando una stretta sincronia che in condizioni ideali favorisce l’assunzione di cibo in specifici momenti della giornata. Quando i pasti non vengono consumati in accordo con questa sorta di orologio interno, ci possono essere ripercussioni profonde con effetti negativi pronunciati sulla salute del soggetto.
La manipolazione dell’assunzione di cibo nell’arco della giornata, accanto all’apporto calorico e alla qualità degli alimenti consumati, potrebbe quindi essere un fattore importante nella prevenzione e nel trattamento di patologie metaboliche.
Studi interessanti sono stati condotti utilizzando protocolli di Time Restricted Eating (TRE, alimentazione a tempo ristretto), una sorta di digiuno intermittente in cui l’assunzione dei pasti è limitata ad una finestra ristretta di circa 8 ore che, ovviamente, si alternano a 16 ore di digiuno. In molti di questi lavori è stato dimostrato che, anche senza un intervento diretto sulla dieta dei soggetti a digiuno, si registra una riduzione del 20% circa sull’assunzione spontanea di cibo, accanto ad una modesta perdita di peso.
In lavori in cui si confronta la risposta ad una TRE in cui i pasti venivano consumati dalle 9 alle 15 rispetto ad una alimentazione tipo con assunzione dei pasti tra le 8 e le 20, si è registrato un netto miglioramento dei soggetti sottoposti al digiuno intermittente, con aumento della sensibilità all’insulina, riduzione della pressione sanguigna e dello stress ossidativo e, strano a dirsi, riduzione dell’appetito nelle ore serali, nonostante l’ultimo pasto venga consumato nel primo pomeriggio. Il tutto anche in assenza di una riduzione del peso corporeo.
Quando invece il digiuno intermittente sia spostato verso le ore serali, ad esempio tra le 12 e le 21, rimane un buon controllo glicemico dopo i pasti ma non si osservano gli altri miglioramenti metabolici presenti quando l’assunzione di cibo cessa prima delle 17.
In effetti il rilascio di insulina e la sensibilità a questo ormone a livello dei vari tessuti segue un ritmo circadiano — probabilmente modulato dai livelli di cortisolo e ormone dalla crescita (GH), anche questi secreti con un ritmo circadiano — con un massimo al mattino e un minimo nelle ore serali. Anche la secrezione di alcuni ormoni che regolano l’appetito come GLP-1 (Glucagon-like peptide-1), GIP (Glucose-inhibitory peptide), peptide YY e grelina, oltre che in risposta al consumo di cibo, dipende in parte da ritmi circadiani. La grelina, l’ormone della fame, presenta un picco verso le 20 ed è ai minimi al mattino, il che potrebbe spiegare la forte fame notturna che riferiscono alcuni soggetti.
In definitiva gli studi attualmente disponibili sembrano indicare che l’assunzione di cibo nelle ore mattutine — una bella colazione — seguita da una riduzione progressiva nelle ore serali e un digiuno notturno prolungato di almeno 14 ore, in accordo con il nostro orologio biologico interno, aiutino a mantenere una buona efficienza metabolica. Un contributo importante potrebbe venire dal fatto che durante il digiuno prolungato il nostro organismo tenda ad aumentare la produzione di energia tramite l’ossidazione dei grassi, aumentando la lipolisi e la disponibilità di acidi grassi liberi. Al contrario, il pattern alimentare tipico, con tre pasti principali e due spuntini e una finestra molto ampia durante la quale si consuma cibo, circa 14-16 ore al giorno, riduce la lipolisi e quindi l’utilizzo dei grassi a scopo energetico.
Certo un’alimentazione che segue strettamente i ritmi circadiani non è proprio facilissima da implementare e pone delle difficoltà — soprattutto di ordine sociale — ardue da gestire. Tuttavia cercare di rispettare un poco di più la nostra natura non è poi così difficile: spostare l’assunzione di cibo al mattino, parrebbe che l’orario migliore per fare colazione sia dopo le 9, evitare di saltare il pranzo, cercare di non rimpinzarsi all’inverosimile a cena, magari finendo per consumarla molto tardi, potrebbero essere dei punti di partenza che già da soli potrebbero fare molto per la nostra salute, anche senza ricorrere a protocolli di TRE o digiuno intermittente. [1, 2, 3, 4, 5, 6]
Esercizio e orologio biologico
La sedentarietà è un fattore di rischio importantissimo. I dati da studi epidemiologici dimostrano che l’associazione tra una pessima condizione cardiometabolica e la mortalità per tutte le cause è molto più forte di quella con l’obesità. L’attività fisica è un farmaco potente, in grado di prevenire diverse decine di patologie, è gratuita ed è alla portata di (quasi) tutti. Eppure è anche rifuggita da una buona parte della popolazione, che in maggioranza non riesce neppure a raggiungere i requisiti minimi consigliati dall’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità).
L’attività fisica migliora la composizione corporea e permette di ridurre la massa grassa, sia quella viscerale sia, soprattutto, quella sottocutanea. L’attività aerobica migliora il benessere cardiovascolare e metabolico mentre gli esercizi contro resistenza — smuovere pesi, che siano esterni o che sia il proprio corpo non importa — permettono di mantenere o aumentare la preziosa massa magra.
L’esercizio da solo determina un aumento modesto della spesa calorica giornaliera e quindi non è di certo il primo o il solo motore della perdita di grasso, ma in congiunzione con una buona dieta può contribuire al miglioramento della composizione corporea e al mantenimento del peso ottimale, punto dolente per molti.
L’attività fisica ha un transitorio effetto di riduzione dell’appetito e migliora la sensazione di sazietà dopo il pasto, effetti che controbilanciano la maggior necessità di cibo che alcuni riportano. Di sicuro l’attività fisica aumenta la sensibilità all’insulina del tessuto muscolare, perlomeno nelle 48 ore successive all’esercizio, con una migliore tolleranza al glucosio, sia in individui sani che in soggetti obesi o con resistenza insulinica.
La quantità di esercizio richiesta per garantire questi miglioramenti è davvero modesta: secondo alcuni autori sarebbero sufficienti una quarantina di minuti di attività di media intensità, anche non continuativi, magari suddivisi in tre frazioni da dieci-quindici minuti l’una. L’effetto appare maggiormente pronunciato se l’attività è svolta subita prima dei pasti.
L’esercizio migliora la flessibilità metabolica dell’organismo in maniera analoga a quanto fa un periodo di digiuno prolungato, con aumento della capacità di utilizzo dei grassi, soprattutto da parte dei muscoli, riduzione dei trigliceridi in circolo, riduzione del colesterolo totale e LDL.
Sono davvero pochi gli studi che hanno inserito esercizio fisico in protocolli di alimentazione a tempo ristretto (TRE): nei tre lavori disponibili i soggetti, sottoposti a un programma di allenamento di forza, sono stati suddivisi —in maniera del tutto casuale — in due gruppi con apporto energetico giornaliero simile. In tutti e tre i casi è stato utilizzato un protocollo TRE con assunzione dei pasti tra le 13 e le 20-22, comparato con una alimentazione senza restrizione oraria. L’intervento ha prodotto in ogni caso aumento della massa magra, ma soltanto i gruppi sottoposti a TRE hanno mostrato anche una riduzione del peso e della massa grassa, accanto ad una riduzione spontanea di circa il 10% dell’apporto calorico. Sono dati interessanti che tuttavia non permettono di ipotizzare che un’alimentazione in fasce orarie limitate sia in qualche modo sinergica agli effetti fisiologici dell’esercizio fisico, visto che gli effetti riportati potrebbero essere semplicemente imputabili al diverso apporto calorico e di proteine e ai diversi momenti di assunzione del cibo rispetto all’attività effettuata.
L’attività fisica è necessaria per il nostro organismo e le variazioni di forza o resistenza che si possono osservare durante la giornata — diversi studi mostrano ad esempio che il soggetto medio ha una prestazione migliore in esercizio di forza nelle ore serali rispetto al mattino — non paiono essere determinanti per quanto riguarda i benefici apportati da una pratica continuativa. Insomma, siamo sempre pronti al movimento, mentre l’assunzione di cibo parrebbe esser meglio gestita quando avviene entro certi orari.
L’alimentazione a tempo ristretto potrebbe essere uno strumento da utilizzare in quei casi in cui l’attività fisica risulta problematica, visto che ne mima gli effetti positivi; la popolazione generale, più che ricorrere a protocolli specifici — che non sempre risultano agevoli da gestire — avrebbe bisogno di vivere un poco più in accordo con il proprio orologio biologico interno, un orologio ancestrale che ancora lavora sulla naturale alternanza di luce e oscurità ed è davvero poco avvezzo agli orari dilatati e al frenetico stile di vita moderno. [7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14]
Alla fine, pare proprio che il vecchio detto “Colazione da re, pranzo da signori e cena da poveri” un grano di verità e saggezza lo contenga davvero. Per l’esercizio fate voi: l’importante è muoversi.
[Parte di questo articolo è basato su un interessante lavoro pubblicato su Exercise and Sport Sciences Review, che potete leggere qui]