La lattoferrina è salita di recente all’onore delle cronache per una possibile azione di prevenzione e trattamento di COVID-19, con conseguente corsa all’acquisto e addirittura esaurimento delle scorte in molte parti d’Italia. Il tutto sulla base di dati provenienti da studi preliminari che vanno interpretati con molta attenzione prima di parlare dell’ennesima “cura”.
La lattoferrina è una proteina in grado di legare il ferro che appartiene alla famiglia delle transferrine, presente in diversi fluidi organici: lacrime, saliva, secrezioni nasali e, come intuibile dal nome, soprattutto nel latte, dove raggiunge la concentrazione di 2-3 grammi per litro, che può arrivare fino a 5 g/L nel colostro.
La catena della lattoferrina, costituita da circa 700 aminoacidi, si ripiega a formare due strutture globulari, ognuna delle quali può legare un atomo di ferro o, più raramente, altri metalli come rame, zinco e manganese. La lattoferrina umana è molto simile a quella di altri mammiferi, in particolar modo a quella bovina, che infatti è ampiamente utilizzata per la produzione di integratori, accanto a quella ottenuta sfruttando organismi ricombinanti. La lattoferrina assunta per via orale è suscettibile a digestione e soltanto una piccola parte giunge nell’intestino intatta: per questo motivo viene somministrata utilizzando microparticelle o liposomi. [1, 2]
A cosa serve la lattoferrina
La lattoferrina è una proteina molto indaffarata. Vista la sua elevata affinità per il ferro, si è a lungo pensato che il suo ruolo fosse quello di trasportare il metallo, ma i dati più recenti indicano che la sua attività più importante è quella di “spazzino del ferro” in condizioni di pH ridotto, tipiche di gran parte dell’apparato digerente e dei tessuti infiammati. Quando la lattoferrina lega il ferro libero presente in questi distretti impedisce infatti che possa partecipare alla formazione di radicali liberi, che a loro volta potrebbero danneggiare gravemente diverse molecole biologiche.
Grazie alla sua capacità di ridurre la disponibilità di ferro libero, la lattoferrina è in grado di fermare la crescita di quelle specie batteriche che hanno assoluta necessità del minerale per potersi moltiplicare. Accanto a quest’azione batteriostatica, c’è anche un’azione diretta di distruzione delle cellule batteriche, la capacità di attivare macrofagi e linfociti, e di modulare la risposta immunitaria, particolarmente quando si ha una iperattività del sistema immunitario che porta ad una elevata produzione di sostanze pro-infiammatorie — la “tempesta di citochine”, come è definita in maniera molto colorita — una situazione che può causare danni irreparabili a tessuti e organi e portare alla morte del soggetto. [3, 4]
Lattoferrina e virus
La lattoferrina ha mostrato anche attività contro diverse famiglie di virus, grazie alla capacità di legare particelle virali e di legare diversi recettori di superficie delle cellule bersaglio dei virus, in particolar modo Eparan solfato, una molecola cui molti virus si legano inizialmente, concentrandosi sulla superficie della cellula, per aumentare la probabilità di legarsi al recettore specifico che permette loro l’ingresso nella cellula.
La maggior parte dei lavori sul tema sono su linee cellulari e su modello animale. Gli studi clinici su umani sono pochi e non hanno dato risultati importanti: in alcuni casi si sono registrati modesti miglioramenti dei sintomi, ma nessun effetto protettivo o curativo di un qualche valore apprezzabile. [5, 6]
Si tratta comunque di dati suggestivi, che hanno fatto supporre a diversi ricercatori un possibile ruolo della lattoferrina nella prevenzione e nella terapia di COVID-19. [7, 8] E qui arriviamo allo studio che tanto scalpore ha fatto nei giorni scorsi.
Lattoferrina e COVID-19: lo studio
Lo studio, condotto da un gruppo di ricercatori dell’università di Tor Vergata, è in realtà un report preliminare che comunica i risultati del lavoro prima che questi sia stato sottoposto a peer-review, ossia un lavoro di revisione e valutazione da parte di esperti che ne verificano l’idoneità alla pubblicazione, una complessa trafila necessaria ad evitare che siano dati alle stampe lavori con errori, distorsioni, bias o difetti metodologici. [Trovate il testo completo dello studio a questo link]
Gli autori hanno condotto un’indagine su colture cellulari per chiarire il meccanismo con cui la lattoferrina potrebbe impedire l’ingresso del virus nella cellula, utilizzando anche tecniche informatiche per prevedere le possibili interazioni tra la lattoferrina, la proteina spike che il virus utilizza per agganciare i recettori sulla superficie della cellula, e i recettori stessi. I risultati, che possono far supporre un effetto protettivo, non hanno però permesso di chiarire l’effettivo meccanismo d’azione della lattoferrina, che gli autori ipotizzano possa essere analogo a quello riscontrato nei confronti di altri virus.
Lo studio ha coinvolto anche 32 pazienti con COVID-19, età media di 55 anni, di cui 10 asintomatici e 22 con sintomi lievi o moderati. Altri 32 volontari, negativi al virus, sono stati assegnati a un gruppo di controllo, omogeneo per età e comorbilità. I 32 soggetti malati hanno ricevuto una speciale formulazione di lattoferrina in liposomi — vescicole di lipidi che proteggono la proteina dall’azione di enzimi digestivi, in modo da proteggerne l’integrità strutturale e la funzione biologica — somministrati con spray nasale o per via orale.
Nei pazienti trattati la carica virale si è ridotta a zero in 10 soggetti dopo quindici giorni e in tutti i soggetti dopo trenta giorni. Sulla carta il risultato è interessante ma non si discosta di molto dal decorso naturale della malattia. Sono stati valutati anche alcuni parametri di grande importanza nel decorso della malattia, IL-6, una citochina infiammatoria, d-dimero, un marcatore che indica problemi nei processi di coagulazione, e ferritina, un’altra transferrina che aumenta notevolmente nella fase acuta. Questi valori si presentavano elevati nel gruppo dei malati e si sono ridotti in maniera significativa a al termine del trattamento. Non ci sono state invece variazioni apprezzabili per altri marcatori indagati.
Questi i risultati, che non possono certo dirsi epocali. Sono gli autori stessi a indicare i maggiori problemi, ossia il ridotto numero di soggetti indagati e la mancanza di un vero gruppo di controllo, ossia dei malati che non vengono sottoposti al trattamento riservato al gruppo d’indagine. Qui abbiamo un gruppo di sani non sottoposto ad alcun trattamento e utilizzato soltanto per un confronto dei parametri ematici.
Non si tratta quindi dati che possono giustificare l’entusiasmo dei media nei confronti dell’ennesima “cura dei miracoli”, tra l’altro tutta italiana, che fa sempre piacere mettere una bella bandierina sopra storie di questo tipo.
La lattoferrina — che, ricordo, produciamo in proprio e in parte possiamo prendere anche dal latte e da derivati — stuzzica la fantasia perché si tratta dell’ennesimo composto “naturale”, poco importa se ottenuta da organismi ricombinanti, in opposizione a farmaci e vaccini, che una fetta non trascurabile del pubblico vede — in maniera del tutto immotivata — con crescente sospetto. I risultati di questo lavoro, e di una manciata di altri [9], tutti con gli stessi problemi metodologici e con risultati altrettanto modesti, non giustificano assolutamente la prescrizione o l’utilizzo di integratori di lattoferrina per la prevenzione o, addirittura, il trattamento di COVID-19.
Siamo di fronte all’ultimo di una teoria lunghissima di scoop che di fronte a risultati di singoli studi, interpretati in maniera del tutto acritica, scatenano un’isteria di massa e una rincorsa forsennata alla sostanza miracolosa del momento, sia questa vitamina D, zinco, naringenina o lattoferrina.
Un peccato, perché la lattoferrina è una sostanza che merita grande attenzione e studi più approfonditi e meglio progettati, per valutare se le funzionalità che mostra in vitro e nel modello animale siano presenti anche in vivo, sull’uomo.
Rimane il fatto che COVID-19 si presenta spesso in forma più grave in soggetti sovrappeso, ipertesi e diabetici. Mantenere una buona condizione fisica, seguire una dieta sana, equilibrata, con un apporto calorico commisurato alle proprie reali necessità, accompagnata da un’adeguata attività fisica è probabilmente l’insieme di misure preventive più efficaci verso questa e molte altre patologie.
Senza correre dietro alle tante cure miracolose che sicuramente ci verranno ancora proposte.