Le intolleranze alimentari  vanno di moda e l’intolleranza al lattosio è una di quelle che si portano meglio, in questa stagione. I sintomi, i test per diagnosticarla (sul serio), la gestione con la dieta. E la natura genetica del problema, spunto di riflessione stimolante sulla recente storia evolutiva dell’uomo.

Il lattosio è lo zucchero presente nel latte di tutti i mammiferi (fatta eccezione per il leone marino), un disaccaride  costituito da glucosio e galattosio, uniti tra loro da un legame (1→4) β-glicosidico. Si tratta di un nutriente essenziale per la crescita dei neonati che nell’intestino può essere assorbito soltanto dopo essere stato idrolizzato nei due zuccheri semplici che lo compongono. La rottura del legame glicosidico avviene grazie all’azione di un enzima, la lattasi (Lattasi-Florizina Idrolasi), abbondante nell’orlo a spazzola delle cellule dei villi intestinali. L’enzima comincia già a essere prodotto durante l’ottava settimana di gestazione e raggiunge il suo picco intorno alla 34a settimana. La capacità di digerire ed assorbire il lattosio è massima alla nascita  ed è essenziale per la salute del neonato, come è dimostrato dal Deficit congenito di lattasi, una rara malattia genetica caratterizzata dalla completa assenza dell’enzima, mortale se non trattata tempestivamente.[1, 2, 3]

Lattosio, lattasi e genetica

Negli esseri umani l’attività della lattasi cambia nel corso della vita: nella maggior parte dei casi l’attività dell’enzima comincia a calare a partire dai 2-3 anni, per ridursi a livelli molto bassi intorno ai 5-10 anni. Esistono tuttavia alcune popolazioni in cui si osserva persistenza della lattasi anche nell’età adulta: nell’Europa settentrionale la diffusione di questo particolare tratto raggiunge il 90%, cala intorno al 50% nei paesi del Mediterraneo, Spagna e Italia, e nel Medio Oriente, per raggiungere i valori più bassi in Estremo Oriente, dove si scende addirittura all’1% in Cina. La situazione in Africa è molto varia, popolazioni dedite alla pastorizia presentano persistenza della lattasi nel 90% degli individui, mentre in altre zone del continente, dove predominano attività legate all’agricoltura e alla caccia, si scende su valori che vanno dal 20 al 5%.

Il gene della lattasi si trova sul braccio lungo del cromosoma 2 e la proteina per cui codifica presenta una sequenza identica in tutti i soggetti, indipendentemente dalla capacità di digerire o meno il lattosio. Le mutazioni che rendono possibile la persistenza dell’enzima riguardano una parte del gene che ne regola l’espressione. Esistono diverse varianti  che permettono una maggiore espressione del gene della lattasi: si tratta di sostituzioni di un singolo nucleotide, comparse in maniera indipendente in diverse area del pianeta, Europa, Arabia ed Africa. Queste varianti sono fortemente conservate in tutte quelle popolazioni in cui il consumo di latte nell’età adulta ha un particolare significato adattativo.

La variante caratteristica della nostra area è un polimorfismo C/T nella posizione -13910 del gene MCM6, ossia la variazione di un singolo nucleotide nella sequenza di questo gene: la presenza di T (Timina) in questa posizione determina  persistenza della lattasi, mentre la presenza di C (Citosina) comporta perdita dell’attività enzimatica. La trasmissione delle varianti è dominante, quindi anche chi possiede una singola copia della variante T conserva la capacità di digerire il lattosio.

Si tratta di mutazioni davvero particolari: in genere eventi di questo tipo portano infatti alla perdita della capacità di digerire o assorbire certi nutrienti. In questo caso si è mantenuta invece la capacità di digerire il lattosio anche nell’età adulta, con un aumento delle opzioni alimentari disponibili: un fatto che ha determinato una fortissima pressione selettiva positiva, forse la più forte nella recente evoluzione umana, se si considera che secondo stime recenti le mutazioni in questione risalgono appena a 10.000 anni fa, un periodo di tempo decisamente breve dal punto di vista evolutivo, ma comunque sufficiente a permettere l’enorme diffusione di queste varianti in alcune popolazioni.

Diversi i fattori che avrebbero favorito il successo di queste mutazioni. Per le popolazioni dell’Europa del Nord ha probabilmente avuto un ruolo importante la maggior disponibilità di calcio legata alla possibilità di poter consumare latte durante tutto l’arco della vita. In Africa e nel Medio Oriente la persistenza della lattasi in popolazioni di pastori ha reso disponibile una maggiore quantità di fluidi e nutrienti in un ambiente desertico, decisamente ostile: un esempio di come l’evoluzione dei geni vada di pari passo con quella della coltura di una popolazione, in questo caso legata all’allevamento. La persistenza della lattasi è diffusa in misura minore in quelle popolazioni in cui l’agricoltura era principale fonte di sostentamento e il latte era alimento consumato soprattutto in forma fermentata o di formaggio, prodotti a ridotto contenuto di lattosio. [4, 5, 6, 7, 8]

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La prevalenza dell’intolleranza al lattosio nel mondo. In Italia l’intolleranza al lattosio riguarda circa il 50% della popolazione con un aumento progressivo man mano che ci si sposta verso sud.

Meccanismo  e sintomi dell’intolleranza al lattosio

Sono state descritte tre diverse forme di intolleranza al lattosio:

  • Intolleranza al lattosio primaria o genetica: è quella dovuta alla presenza di varianti che portano alla riduzione dell’espressione della lattasi durante l’accrescimento. Inizia a manifestarsi dai due anni di età ma l’esordio può avvenire più tardi. Circa due terzi della popolazione mondiale si trovano in questa condizione, mentre un terzo circa mantiene la capacità di digerire il lattosio anche in età adulta.
  • Intolleranza al lattosio secondaria o acquisita: si tratta di una forma secondaria, che si sviluppa in seguito a patologie intestinali acute o croniche e tende a risolversi una volta che si abbia guarigione dalla malattia che l’ha innescata. Gravi infezioni intestinali, enteriti, celiachia, morbo di Crohn e linfomi sono tra le patologie ce possono determinare questa particolare forma di ipolattasia.
  • Intolleranza da deficit congenito della lattasi, molto rara — circa 40 i casi riportati, in prevalenza in Finlandia — dovuta alla completa assenza dell’enzima a causa di mutazioni. Il neonato sviluppa diarrea non appena nutrito con il latte materno, con conseguenze gravissime se non si interviene tempestivamente.

In tutti e tre i casi il lattosio contenuto negli alimenti non viene scisso nei suoi costituenti e quindi non può essere assorbito. La presenza del lattosio, per osmosi, richiama acqua nel lume intestinale provocandone la distensione.

Una volta giunto al colon, il lattosio diventa substrato per i processi fermentativi dei batteri presenti, dotati di un’enorme versatilità metabolica: dapprima il lattosio è scisso in glucosio e galattosio, quindi i due monosaccaridi sono utilizzati per produrre energia. Prodotti finali di questo processo sono alcuni acidi grassi a catena corta come l’acido butirrico — indispensabile per il benessere delle cellule della mucosa intestinale — assieme a dei gas, in particolar modo idrogeno, anidride carbonica e metano.

Il malassorbimento del lattosio è una precondizione necessaria perché si possa parlare di intolleranza, tuttavia non sempre soggetti che presentano malassorbimento manifestano i sintomi tipici dell’intolleranza. Sono molti i fattori che possono determinarne o meno la comparsa: la capacità residua di digestione del lattosio, il tipo di alimento consumato, la dose, il consumo con altri alimenti, i tempi di transito a livello intestinale, la composizione del microbiota intestinale e fattori di natura psicologica.

I sintomi tipici sono crampi addominali, meteorismo, gonfiore e forte distensione addominale accompagnati da una sensazione di pesantezza a livello gastrico. In genere le feci sono acquose ed acide, con evacuazioni che seguono a breve distanza il consumo di alimenti ricchi in lattosio. Molto raramente si può invece presentare una stipsi ostinata.

Alcuni autori hanno riportato sintomi che non sono direttamente riferibili all’intestino: stanchezza, letargia, vertigini, eruzioni cutanee, ulcere, dolori muscolari ed articolari e aritmie. Queste manifestazioni sarebbero da imputare ad alcuni dei metaboliti formati dalla fermentazione del lattosio da parte del microbiota — acetaldeide, etanolo, peptidi vari — che andrebbero ad interferire con meccanismi di segnalazione cellulare, ma sul tema è ancora necessario indagare a fondo.

Natura e severità dei sintomi presentano una elevata variabilità individuale: in genere non si hanno sintomi apprezzabili finché rimane almeno un 50% di attività della lattasi. Inoltre il consumo regolare di alimenti contenenti lattosio può indurre una sorta di tolleranza, dovuta ad adattamenti della flora intestinale. Infine, anche soggetti con malassorbimento possono consumare piccole quantità di lattosio senza particolari conseguenze: studi clinici in popolazioni con intolleranza primaria hanno evidenziato che il consumo di dosi di lattosio inferiori ai 12 g non porta alla comparsa di manifestazioni apprezzabili. Se il cibo contenente lattosio è accompagnato da altri alimenti la dose tollerata può salire a 15-18 g, mentre dosi superiori ai 50 g causano sintomi nella maggior parte dei soggetti.

Si tratta in definitiva di sintomi vaghi, che potrebbero essere causati da altri disordini e che richiedono di essere valutati con attenzione, in modo da evitare restrizioni alimentari in realtà non necessarie.

I test per la diagnosi dell’intolleranza al lattosio

La diagnosi dell’intolleranza al lattosio non può basarsi sulla semplice valutazione dei sintomi riferiti dal paziente. Sono necessari dei test che possano evidenziare la presenza di una ridotta attività della lattasi e i fenomeni legati al malassorbimento che ne consegue.

Biopsia dell’intestino tenue

Un test ormai scarsamente utilizzato è la biopsia della mucosa dell’intestino tenue, per la valutazione dell’attività residua della lattasi, con campioni prelevati nel digiuno o tramite endoscopia a livello del duodeno: affidabile e preciso ma, ovviamente, invasivo.

Breath test al lattosio

Il test più diffuso è l’H2-Breath Test o Breath Test al lattosio, basato sulla fermentazione del lattosio non assorbito da parte del microbiota intestinale, con produzione di anidride carbonica, metano e idrogeno, gas che dopo essere entrati in circolo vengono eliminati a livello polmonare. In condizioni normali la produzione intestinale di idrogeno è molto ridotta, ma in caso di malassorbimento del lattosio aumenta in maniera rilevante. Le dosi di lattosio utilizzate vanno dai 25 ai 50g: il ricorso alla dose da 50 g è stato criticato poiché rappresenta un consumo eccessivo, pari a 4-5 tazze di latte e non riflette in maniera accurata il normale comportamento alimentare.

Il soggetto che si sottopone al breath test deve essere digiuno da almeno dodici ore, non deve aver assunto probiotici e lassativi nella settimana precedente all’esame e non deve aver assunto antibiotici nel mese precedente. Il giorno prima dell’esame è consigliata una dieta a base di riso e carne o pesce ai ferri, senza pane, frutta e verdure. Sono accorgimenti importanti per evitare di falsare l’esame il cui esito dipende da un gran numero di fattori diversi. Si possono avere falsi negativi a causa di terapie antibiotiche pregresse, per eccessiva acidità a livello del colon che inibisce l’attività della flora batterica o per adattamenti del microbiota al costante consumo di lattosio pur in presenza di malassorbimento, adattamenti che possono portare alla predominanza di specie fermentanti con scarsa produzione di idrogeno. Più rari, ma altrettanto problematici, possono essere i falsi positivi legati a una eccessiva proliferazione di batteri nell’intestino tenue.

Si tratta di un test di facile esecuzione e non invasivo, anche se il consumo di dosi elevate di lattosio può provocare sintomi decisamente poco piacevoli nei soggetti più sensibili. La positività al test indica la presenza di malassorbimento, ma non può determinare se si tratti di una forma primaria, di natura genetica, oppure acquisita in seguito a infezioni o patologie.

Test genetici per il polimorfismo C/T -13910

Sono disponibili anche dei test genetici con i quali è possibile evidenziare la presenza di polimorfismi a livello del gene della lattasi, in particolar modo il polimorfismo C/T -13910 tipico della nostra area. I soggetti che presenta la variante T in entrambe o in una singola copia del gene, in genere mantengono una adeguata attività della lattasi, mentre gli omozigoti per la variante  C presentano perdita dell’attività enzimatica.

Si tratta di un test che viene eseguito con un tampone boccale, semplice, con sensibilità e specificità molto elevate, da utilizzare quando l’esecuzione del breath test possa risultare scomoda o difficile, ad esempio nei bambini. Il test genetico permette di discriminare tra forme primarie o acquisite di malassorbimento del lattosio. Nessuna informazione invece sui sintomi associati al consumo del disaccaride. [9, 10, 11, 12]

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Il meccanismo attraverso il quale la ridotta presenza di lattasi comporta malassorbimento del lattosio e quindi comparsa dei sintomi tipici dell’intolleranza al lattosio.

Trattamento e dieta per l’intolleranza al lattosio

Il trattamento dell’intolleranza al lattosio dovrebbe essere mirato a ridurre i sintomi legati al malassorbimento. Un dato che va sempre tenuto presente è che numerosi studi hanno mostrato che anche soggetti con ridottissima attività della lattasi possono tollerare il consumo di piccole quantità di lattosio:

  • Fino a 12 g in un unico pasto (circa 250 ml di latte)
  • Fino a 24 g nell’arco della giornata, distribuiti in più pasti (circa 500 ml di latte)

Soggetti intolleranti al lattosio possono quindi consumare piccole quantità di lattosio, meglio se suddivise in più porzioni nell’arco della giornata e se assunte con altri cibi.

Per soggetti con intolleranza primaria si consiglia comunque una dieta di esclusione che riduca ai minimi termini l’assunzione di lattosio. Una dieta di questo tipo porta ad un miglioramento dei sintomi in oltre l’85% dei soggetti con intolleranza genetica. Un piccolo numero di soggetti, particolarmente quelli che riferiscono sintomi riconducibili ad una Sindrome del Colon Irritabile, potrebbero non presentare i miglioramenti sperati: in questi pazienti i fastidi possono essere dovuti oltre che al malassorbimento di lattosio anche a problemi con altre piccole molecole scarsamente assorbite e facilmente fermentabili, i FODMAP. In questi casi, dopo un’attenta valutazione, è possibile proporre una dieta a basso contenuto di FODMAP, che accanto al lattosio riduca al minimo anche il consumo di queste sostanze. Le restrizioni nella dieta FODMAP sono temporanee ed è comunque prevista una fase di reintroduzione per saggiare quantità e frequenza con cui gli alimenti che scatenano i sintomi possono essere consumati.

Anche per soggetti che presentino una intolleranza secondaria è prevista, dopo una fase di eliminazione che abbia permesso di ridurre al minimo i sintomi riportati, una fase di reintroduzione, magari preceduta da un breath test che permetta di verificare la riduzione o la scomparsa dei problemi di malassorbimento causati da patologie o interventi chirurgici.

In commercio sono disponibili molti integratori di lattasi. Si tratta di preparati ottenuti da Kluyveromyces lactis o da Aspergillus oryzae, microorganismi in grado di produrre l’enzima in grado di spezzare il legame glicosidico del lattosio liberando glucosio e galattosio, con netta riduzione del malassorbimento. Il consumo di questi integratori, una trentina di minuti prima del pasto, dovrebbe consentire il consumo lattosio senza fastidiosi sintomi, un possibile aiuto a quei soggetti intolleranti che sono costretti a mangiare alimenti il cui contenuto di lattosio non è noto, come spesso avviene a chi mangia fuori casa per lavoro.

Alcuni studi hanno mostrato che il consumo di probiotici, ceppi batterici che fanno parte del microbiota intestinale, in particolar modo Lactobacillus casei e Bifidobacterium breve, possono contribuire a ridurre il malassorbimento, portando a miglioramenti che persistono per qualche mese dopo l’interruzione della somministrazione del prodotto. I dati disponibili sono tuttavia contrastanti e la ricerca su questi temi va approfondita.

La lista dei cibi da eliminare o da consumare con attenzione è lunga e comunque  è importante fare molta attenzione nell’acquisto di prodotti confezionati, poiché il lattosio è ampiamente utilizzato sia nell’industria alimentare sia in quella farmaceutica: da sottolineare che è sempre bene valutare l’effettiva quantità di lattosio presente prima di scartare un alimento, infatti piccole quantità dello zucchero, come quelle presenti in molti farmaci, non dovrebbero creare problemi.

Alimenti da escludere

Alimenti ad elevato contenuto di lattosio che non vanno consumati durante una dieta di eliminazione:

  • Latte vaccino, di bufala, di asina, ovino e caprino;
  • Mozzarella, ricotta, robiola, fiocchi di latte, formaggini e formaggi freschi in genere;
  • Besciamella, creme e salse preparate con panna, latte e derivati;
  • Pane al latte, grissini, crackers, fette biscottate biscotti preparati con latte o derivati;
  • Insaccati e salumi preparati con lattosio: wurstel, salsicce, prosciutto cotto, etc;
  • Purea di patate
  • Cioccolato al latte o parzialmente fondente
  • Gelati

Alimenti che possono contenere lattosio

Il lattosio è utilizzato per la preparazione di molti prodotti nell’industria alimentare, alcuni dei quali insospettabili. Consultate sempre le indicazioni presenti sull’etichetta, per evitare sorprese.

  • Hamburger, polpette, salumi e altri preparati a base di carne;
  • Caramelle e dolciumi;
  • Ripieni di alimenti confezionati;
  • Pasta ripiena preparata con ricotta o latri latticini;
  • Salse e sughi in scatola;
  • Cioccolato in polvere;
  • Caffè solubile;
  • Caffè al ginseng

Alcuni formaggi sono prodotti con modalità che portano ad una riduzione apprezzabile del contenuto di lattosio che è quindi presente in quantità molto ridotte. Il loro consumo potrebbe essere possibile in soggetti con intolleranza non severa.

  • Asiago
  • Brie
  • Camembert
  • Feta
  • Fior di latte
  • Fontina
  • Taleggio
  • Toma
 

Alimenti a ridotto contenuto di lattosio

Esiste una vasta gamma di prodotti e derivati del latte a basso contenuto di lattosio che possono essere consumati senza problemi anche da soggetti intolleranti. Si tratta di prodotti delattosati, in cui il lattosio è stato eliminato grazie a processi di idrolisi enzimatica che, a differenza dei processi termici, non modificano in maniera apprezzabile le caratteristiche organolettiche e i valori nutrizionali del prodotto di partenza.

Molti formaggi  prodotti con una lunga stagionatura presentano un contenuto di lattosio prossimo allo zero e possono essere consumati senza problemi.

Sono disponibili inoltre bevande sostitutive del latte di origine vegetale, con le quali si preparano anche budini, formaggi, panna e altri derivati, tutti ovviamente privi di lattosio.

  • Latte e yogurt delattosati;
  • Formaggi freschi delattosati;
  • Bevande sostitutive del latte di origine vegetale (mandorla, cocco, avena);
  • Latte, budini e gelati di soia;
  • Parmigiano, grana, pecorino, provolone, groviera e in generale tutti i formaggi a pasta dura;
  • Prosciutto crudo, salumi e insaccati senza lattosio
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Lo yogurt è un alimento che presenta un ridotto contenuto di lattosio rispetto al latte fresco:che spesso può essere consumato anche da soggetti intolleranti, nella giusta quantità.

Eliminare il lattosio può creare problemi?

I sintomi legati all’intolleranza al lattosio sono decisamente fastidiosi e spesso chi ne soffre tende a seguire rigide diete di esclusione, spesso prestando attenzione anche alla possibile presenza di minime quantità di lattosio presenti in alcuni prodotti.

In realtà abbiamo visto che anche soggetti con ridottissima attività della lattasi possono tollerare il consumo di modeste quantità di lattosio. Lo scopo della dieta di eliminazione dovrebbe essere quello di ridurre i sintomi: una volta ottenuto questo obiettivo si dovrebbe prevedere una fase di reintroduzione che permetta di stabilire quantità e frequenza di consumo che determinano l’insorgere dei sintomi.

I latticini non sono di certo alimenti essenziali in una dieta bilanciata ma sono una delle migliori fonti di calcio disponibili. Rimuoverli dalla dieta potrebbe provocare una riduzione della quantità del minerale disponibile nell’organismo, essenziale per la salute delle ossa e per un gran numero di processi fisiologici. Alcuni studi hanno mostrato che soggetti intolleranti al lattosio possono avere maggior suscettibilità a fratture e osteoporosi, ma i dati disponibili non sono concordi. È comunque importante che in caso di diete di eliminazione severe, che riducano drasticamente il consumo di latte e latticini, si cerchi di mantenere un apporto giornaliero di calcio superiore ai 1000 mg/die, consumando quegli alimenti che ne contengono abbondanti quantità come sardine, salmone, gamberi, spinaci, cavolo, broccoli, fagioli, fichi, arance, nocciole.

Le diete di eliminazione non sono uno scherzo. Gli alimenti non vanno esclusi quando non ce ne sia una reale necessità. Se sospettate di soffrire di intolleranza al lattosio parlatene al vostro medico, che saprà consigliarvi i test necessari ad una diagnosi: ricordate che i sintomi legati al malassorbimento sono comuni a molte altre patologie e che magari con una dieta di eliminazione potreste finire per mascherare allergie o patologie ancora più pericolose. Se dovete seguire una dieta di eliminazione ricordate che sarebbe necessario pianificare una fase di esclusione e una di reintroduzione, per valutare quantità e frequenza del consumo di lattosio che possono causare i sintomi, e che soltanto in pochi casi sono necessarie le misure di esclusione rigidissime e paranoiche che i tanti guru dell’alimentazione, nella loro profonda saggezza di esperti formatesi all’università della VITA, dispensano a destra e a manca. [13, 14, 15, 16, 17, 18]