Uno spettro si aggira per le dispense di tutto il mondo. È l’olio di palma, dipinto spesso come il responsabile di ogni male e portatore delle conseguenze più nefaste per chi ne usa, figurarsi per chi ne abusa. La realtà è molto più sfumata e francamente la disinformazione circolante su questo alimento rasenta talvolta il puro terrorismo.
L’olio di palma viene estratto dalla polpa del frutto di tre diversi tipi di palma, principalmente Elais guineensis, e non va confuso con l’olio estratto dal nocciolo che ha una composizione molto diversa. Da sempre uno dei cardini della cucina africana, è rimasto a lungo sconosciuto in europa dove è stato introdotto a meta dell’800 per usi puramente industriali, come lubrificante. La coltivazione si è successivamente diffusa nel sud-est asiatico dove è enormemente aumentata negli ultimi cinquanta anni per la crescente richiesta di olio da parte dell’industria alimentare e, negli ultimi anni, per il nuovo utilizzo come materia prima perla produzione di biocarburanti.
In effetti si tratta di un prodotto che è del tutto estraneo alla nostra tradizione e alla nostra cultura alimentare. Lo ritroviamo sulle nostre tavole soprattutto quando consumiamo prodotti industriali, visto che le caratteristiche di questo prodotto lo rendono ideale ingrediente nei processi di cottura, di conservazione e di stoccaggio dei cibi preconfezionati.
L’olio di palma contiene infatti circa il 48% di acidi grassi saturi, con netta prevalenza dell’acido palmitico che si attesta intorno al 43%, accompagnato da un 4% di acido stearico. Accanto a questi troviamo un elevato contenuto di acidi monoinsaturi, con l’acido oleico che arriva intorno al 38%, e polinsaturi, con il linoleico intorno al 10%. In definitiva quindi il contenuto di acidi grassi ritenuti protettivi, mono- e polinsaturi, supera quello dei temutissimi acidi grassi saturi. Una composizione che sulla carta lo rende migliore del burro o dell’olio di cocco, ancora più ricchi di acidi grassi saturi e poveri degli acidi grassi più “sani”.
L’elevato contenuto di acidi grassi saturi fa sì che l’olio di palma sia tra i pochi grassi solidi a temperatura ambiente, resistente alla perossidazione lipidica e ai processi di irrancidimento di cui sono molto più suscettibili gli oli di semi, più ricchi dei più delicati acidi grassi mono e polinsaturi.
La caratteristica dell’olio di palma grezzo è quella di avere un bel colore rosso brillante, e sappiamo che quando un prodotto di origine vegetale ha un colore vivo questo è indice di un elevato contenuto di antiossidanti, carotenoidi, steroli: dal beta-carotene al licopene, a tocoferoli e tocotrienoli (vitamina E) fino al CoenzimaQ10. Una dotazione che non sfigura di fronte a quella dell’olio di oliva, e che lo rende nella sua forma non raffinata, un cibo addirittura salutare. Purtroppo però in questa forma l’olio di palma lo utilizzano soltanto in Africa. Per noi occidentali c’è la versione industriale, che è raffinata e frazionata e si presenta in panetti bianchi, simili al burro, o come un olio giallastro e inodore ampamente utilizzato in rosticcerie e friggitorie, grazie all’elevato punto di fumo, intorno ai 235°C, che in questo ambito lo rende sicuramente migliore dei tanto diffusi oli di semi. Ovvio che in questa forma siano andati persi tutti quei componenti salutari tipici del prodotto grezzo, al fine di eliminare aromi, sapori e colori che potrebbero interferire con i processi di produzione e con le caratteristiche organolettiche dei cibi. Per peggiorare le cose molto spesso poi l’olio di palma è mescolato all’olio di palmisti -estratto dal nocciolo- e decisamente peggiore come profilo nutrizionale.
Risulta quindi abbastanza evidente come una buona parte del problema non sia dovuta alle caratteristiche dell’alimento in sé ma alla lavorazione cui è sottoposto e a all’uso quasi ubiquitario che ne fa l’industria alimentare. Tuttavia è necessario sottolineare che non è certo il solo olio di palma a rendere certi cibi pericolosi. Il pericolo sta nell’abitudine a consumare quantità elevate di questi prodotti durante una giornata tipica: biscotti a colazione, cornetto per lo spuntino del mattino, fritturina a pranzo, creme spalmabili a merenda e dessert per chiudere in bellezza la giornata. Se ci si riconosce in questa descrizione magari, prima di scrutare ossessivamente le etichette alla ricerca dell’olio cattivo, sarebbe meglio dare una sistemata generale alle nostre abitudini, non saranno uno o due grammi in più di olio di palma a farci esplodere le arterie. Una volta acquisite abitudini un poco più sane, tipo consumare del cibo preparato in casa, potremmo anche considerare le etichette dei prodotti industriali che ancora rimangono nella nostra dieta: da poco tempo è finalmente obbligatorio indicare l’origine e i trattamenti degli oli utilizzati, impedendo ai produttori di trincerarsi dietro una generica e fuorviante indicazione di grassi vegetali.
Parlando di alimentazione non dobbiamo cercare capri espiatori: non esistono alimenti “cattivi” che fanno male a prescindere, che sono responsabili di malattie, sventura e aumento costante della taglia indossata. Questo è un atteggiamento molto sbagliato. Il problema sta nelle abitudini, nello stile di vita. È qui che bisogna intervenire, modificare, correggere, perchè è a questo livello che si creano danni anche gravi. Prendersela con l’olio di palma è tanto comodo quanto stupido, soprattutto se si crede che sia sufficiente evitare questo alimento, che di certo non è il più sano del mondo, per evitare le spiacevoli conseguenze di un’alimentazione sbagliata. Non si deve chiedere cibo di bassa qualità senza specifici ingredienti, quel cibo bisogna consumarlo soltanto occasionalmente. Sicuramente un elevato consumo di quest’olio è indice di abitudini sbagliate visto l’uso quasi esclusivo che se ne fa in campo industriale e in ristoranti e friggitorie di basso profilo. E allora correggiamo le abitudini e il problema dell’olio di palma diverrà, al più, marginale.
Il successo della campagna mediatica imbastita contro questo alimento è testimonianza di un approccio ingenuo e sbagliato all’alimentazione: individuare un nemico, additarlo come fonte di tutti i mali, pretendere che sia eliminato da ogni prodotto e far finta che adesso sia tutto a posto, mentre si riprende a consumare cibo spazzatura. Negli anni 70 è toccato all’olio di cocco. Oggi è il turno del palma. Quale sarà il prossimo nemico giurato da eliminare senza pietà per continuare a mangiare in tutta serenità le peggiori porcherie?
L’olio di palma e la salute
La maggior parte delle conclusioni negative su uso e consumo dell’olio di palma nascono dall’analisi della sua composizione e soprattutto dall’abbondante presenza di acido palmitico (indovinate perché si chiama così). In effetti tra i vari acidi grassi saturi è proprio il palmitico, assieme al miristico, quello imputato di determinare, con consumi elevati, aumento del colesterolo LDL contribuendo alla genesi di malattie cardiovascolari, come riportato anche dalla World Health Organization. Da sottolineare che è in atto un ripensamento importante sul ruolo effettivo degli acidi grassi saturi come causa di patologie cardiovascolari, con un giudizio molto più sfumato rispetto a quello durissimo di qualche anno fa. Gli studi più recenti mostrano che in realtà il palmitico aumenta sia il colesterolo LDL che quello HDL, e che l’aumento determinato appare ridotto quando il palmitico è consumato assieme ad acido linoleico ed altri grassi insaturi. Trovate maggiori informazioni sui grassi saturi in questo articolo. [1, 2, 3]
Nel modello animale diete con elevato contenuto di olio di palma possono ridurre la sensibilità all’insulina e determinare forte aumento dei trigliceridi. I risultati di studi su umani sono meno netti, con lavori che rilevano un effetto analogo e altri che invece non registrano variazioni significative. Il quadro diventa ancor più confuso se si pensa che l’acido palmitico viene prodotto nell’organismo quando la dieta sia molto ricca di carboidrati e di alcol: come si vede la matassa da dipanare, quando si voglia valutare l’effetto di un alimento sulla salute, è davvero intricata.
Per quello che riguarda il supposto legame tra consumo di palma e rischio cardiovascolare uno degli studi più spesso citati è quello effettuato in Costa Rica, i cui risultati mostrano una riduzione del rischio di infarto del miocardio sostituendo l’olio di palma con quello di soia, uno dei pochi con risultati così netti. Interessanti alcuni lavori che mostrano come eventi cardiovascolari avversi si rilevino per un aumento considerevole, superiore al litro, del consumo annuale di olio di palma: nei paesi in via di sviluppo l’aumento della frequenza di tali eventi è minimo, mentre è statisticamente significativo nei paesi industrializzati, con stile di vita occidentale. Un risultato che dovrebbe farci meditare: il problema è l’olio di palma o lo stile di vita?
Di diverso segno le conclusioni di uno studio olandese nel quale i tipici grassi della dieta nord-europea, grassi animali ed idrogenati, sono stati sostituiti da olio di palma. Al termine dello studio si è infatti osservata una significativa riduzione del colesterolo LDL e delle apolipoproteine B senza variazioni importanti del colesterolo totale e di altre frazioni lipoproteiche, con modesta riduzione del rischio cardiovascolare. Ancora di segno positivo una revisione di diversi lavori su umani e animali che conclude indicando come la sostituzione del palma con altri grassi mono- o polinsaturi non comporti una riduzione significativa del rischio cardiovascolare.
Analoghe le conclusioni di una recente rewiev di Fattore e Fanelli, una revisione della letteratura scientifica sull’argomento, che ha rilevato come i dati attualmente disponibili non permettono di poter trarre conclusioni definitive sul ruolo dell’olio di palma nella genesi delle malattie cardiovascolari. Gli autori hanno invitato ad approfondire il tema con nuovi studi che, oltre che la natura degli acidi grassi, prendano in esame anche il tipo di trigliceridi che questi formano. Pare infatti che nel determinare l’aterogenicità di un olio sia molto importante la posizione che i grassi saturi occupano nelle molecole dei trigliceridi presenti: nel palma troviamo soprattutto trigliceridi con acido palmitico in posizione 1 e 3, mentre la posizione 2, quella critica, è occupata dal sanissimo acido oleico, un profilo decisamente migliore dei grassi animali e di poco peggiore rispetto a quello dell’olio di oliva.
Controversi i risultati relativi a un possibile legame tra il consumo di olio di palma e varie forme tumorali. Gli studi danno risultati ampiamente variabili e di difficile interpretazione, vista la difficoltà di determinare con precisione il consumo e il ruolo dei singoli acidi grassi: il quadro generale indica che una dieta con un consumo ridotto di grassi possa giocare un ruolo protettivo nei confronti della genesi tumorale, e che un eccesso di grassi saturi possa avere un qualche ruolo sia nella genesi di tumori sia in processi di tossicità cellulare. Anche qui sono necessari studi più approfonditi e dettagliati prima di giungere a raccomandazioni e linee guida ufficiali.
Infine il tema caldo degli ultimi mesi: la presenza nell’olio di palma utilizzato nell’industria alimentare di composti con presunta attività carcinogenica. Le sostanze incriminate sono 3- e 2-monocloropropanediolo (MCPD) e altri glicidil esteri degli acidi grassi. Si tratta di sostanze che si formano durante i processi di raffinazione, a temperature elevate, superiori ai 200°C. Queste sostanze sono presenti in tutti gli oli vegetali lavorati, ma la quantità presente nel palma è decisamente superiore a quella rilevata negli altri oli. Si tratta di sostanze che in laboratorio, a concentrazioni elevatissime non raggiungibili con la sola alimentazione, hanno mostrato attività genotossica, ossia in grado di determinare alterazioni a livello del genoma. Tuttavia il rischio per l’assunzione di queste sostanze con una alimentazione bilanciata è considerato dagli epidemiologi come un normale rischio associato a fattori ambientali e stile di vita, a meno che non si consumino in grande quantità e per tempi prolungati alimenti ricchissimi di queste sostanze.
Anche dai lavori scientifici e dai pareri delle autorità competenti emerge un quadro che evidenzia come il palma sia un olio non peggiore di molti altri. Prima di invocare a gran voce la sua eliminazione andrebbe capito bene con cosa viene sostituito, perché se le alternative sono burro, cocco, o peggio grassi vegetali idrogenati potremmo dire di aver scelto decisamente in peggio. E ripeto che in primo luogo bisognerebbe iniziare con il dare una sistemata all’alimentazione nel suo complesso, senza credere di aver sistemato tutto perché hanno tolto l’ingrediente brutto e cattivo. [4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16]
Parere dell’Istituto Superiore di Sanità Contiene interessanti valutazioni sul consumo di palma da parte della popolazione italiana nelle varie fasce di età e valutazioni sull’impatto per la salute derivante dal consumo.
Un problema importante: olio di palma e ambiente
Probabilmente una buona parte della campagna negativa contro l’olio di palma nasce da altri motivi: in primo luogo il forte impatto ambientale che la coltura intensiva delle palme da olio sta avendo nel sud-est asiatico, con la distruzione di vastissime aree di foresta tropicale per far spazio ad enormi piantagioni che non sono destinate alla sola produzione di olio alimentare ma anche a quella di biocarburanti, lubrificanti e altri derivati. [17, 18]
Le coltivazioni di palma occupano aree molto estese di Malesia ed Indonesia dove l’attenzione negli ultimi anni si è rivolta ad aumentare la produzione per ettaro — evitando ulteriore espansione delle piantagioni — e a ridurre l’inquinamento derivante dagli stabilimenti di raffinazione. Valutando le alternative, in un’ottica di alimentazione sostenibile, bisogna considerare che rispetto agli altri oli vegetali il palma ha una resa decisamente maggiore, oltre 4000 kg per ettaro, e che, viste le quantità rilevanti richieste dal mercato, la sostituzione con altri oli richiederebbe l’impiego di coltivazioni ancora più estese, con un danno ambientale ancora più rilevante. Anche in questo caso la soluzione non è così semplice, netta ed immediata come certa vulgata da internet vorrebbe.
Considerando l’aspetto sociale ed ambientale la situazione si fa ancor più spinosa, poiché questo tipo di coltura è al centro dello sviluppo di molte zone povere e diventa molto difficile, dall’alto del nostro comodissimo stile di vita occidentale, che non riesce neppure a rinunciare per pigrizia a prodotti alimentari preconfezionati lamentandosi al tempo stesso della loro insalubrità, chiedere a queste popolazioni di rinunciare allo sfruttamento di una risorsa così importante.
Cambiamo noi, facciamo attenzione al complesso del nostro stile di vita piuttosto che a singoli particolari, e magari altri cambiamenti virtuosi seguiranno a ruota.